Maestro...
perché?
Il grande Socrate definisce la vita
un esercizio quotidiano di umanità e coglie il nocciolo di
tale pratica nella propensio alla curiositas, a cercare, a chiedersi
il perché delle cose, nella certezza assoluta che una vita
non spesa nella ricerca non sia degna di essere definita tale.
Cercare significa prendersi cura della
propria anima, gettandovi semi che apriranno la strada alla Accettazione,
alla Consapevolezza e alla Conoscenza…e via principe di tale
ricerca, viatico verso la propria libertà interiore, si presenta
essere il dialogo serrato e intenso tra il maestro e il discepolo,
in una commossa dinamica di domanda-risposta volta a cercare un
senso agli umani e sofferti perché degli uomini, alle grandi
questioni esistenziali che da sempre attraversano il cuore umano,
l’amore, la felicità, il bene e il male, il dolore,
la morte.
Il libro di Claudio Maneri “Scintille
di vita” sembra davvero inserirsi a pieno titolo dentro la
dinamica affascinante, problematica e dialettica dei dialoghi socratici,
dialoghi che proprio per la loro intrinseca struttura atta al ripiegamento
interiore e allo scavo dell’anima, sembrano essere un guadagno
per il sempre. In un intimo e irrinunciabile colloquio con le voci
di vari Maestri appartenenti a culture e sensibilità religiose
diverse, le cui essenze abitano oramai il Mondo delle Idee, l’autore
affronta in particolare la tematica cogente del dolore nelle sue
pieghe più riposte, in particolare quelle che connotano lo
strappo insopportabile e straziante della perdita di un figlio.
Ciò che colpisce, stupisce ed
emoziona è il delicato messaggio trasversale che emerge dalle
pagine modulate sulle diverse voces canalizzate e cioè che
il dolore, anche il più grande, se vissuto con consapevolezza,
ha il grandissimo potere di trasformare chi resta al di qua della
soglia del limitar di Dite… il lettore, con la stessa palpitante
commozione e commossa umiltà dell’autore, raccoglie
la profonda sacralità del dolore, nel momento in cui l’uomo
scopre che la morte in realtà è vita e che colui che
se ne è andato vive in un’altra dimensione.
E’ come se si cambiassero gli
occhiali, rispetto al proprio vissuto nel quotidiano, ed ecco allora
che appare non già la gioia di vivere ( perché resta
sempre quella sottile, tenace e struggente nostalgia) ma la quiete,
quella quiete profonda che sempre più arriva a comprendere
che tutto deve morire per far vivere l’unica cosa che conta:
l’Unità dell’Essere, del Tutto, in un legame
indissolubile tra vita e morte. Seneca sosteneva che bisogna imparare
a vivere la morte cotidie, che altro non significa che imparare
a vivere il dolore, facendosi incondizionatamente attraversare da
esso, per poi aprirsi a una rinascita: solo così le lacrime
disperanti, il dolore paralizzante, cieco e sordo possono tramutarsi
in amore.
Certo, potrebbe sorgere l’obiezione
spontanea che la conditio per poter non solo intelligere ma anche
comprehendere il libro, sia il possesso di un orizzonte di fede,
qualunque esso sia, comunque di una potenziale finestra che voglia
aprirsi sul cielo della metafisica e del soprasensibile: per cui
le pagine potrebbero risultare sterili o quasi patetiche al sentire
di chi si professa ateo o per lo meno agnostico. Ma la forza del
libro sta proprio nella sua capacità di parlare al cuore
di tutti, di far sì che ognuno, immerso in questo viaggio
che è la vita, possa essere scosso, svegliato, al di là
del suo vangelo, e in qualche modo guarito.
E' l’energia di certi testi, quella
di essere una sorta di terapia, di liturgia interiore, proprio perché
costringono il lettore a fare i conti con se stesso, soprattutto
quando è nel vortice dello stordimento e della fuga da sé.
Il messaggio che più di ogni altro tocca le corde interiori,
al di là naturalmente della fattiva possibilità dell’ulteriorità
e del rilancio della nostra esistenza, è il consiglio ad
ascoltare col cuore, a percorrere gli interrotti sentieri della
ragione con le ragioni del cuore. Solo la voce del cuore può
comprendere anche il dolore più grande; la mente invece,
densa di pensieri e parole, affaticata dal vizio di pensare, non
lascia spazio al sentire, e quindi mente.
Solo con la dispositio, come dire, alogica,
leggera del cuore, si può vivere la consapevolezza dell’attimo,
cessando di ancorarsi al doloroso passato o di proiettarsi verso
l’ignoto futuro. Solo il presente è vita, chi non vive
l’attimo, non vive la propria vita, è sempre in un
momento che non è vita; attimo dopo attimo, noi viviamo e
moriamo continuamente.
Scegliere la via del cuore significa
anche imparare ad esercitare l’arte della compassione, nel
suo significato pregnante di sentire insieme per profonda empatia:
la compassione è quel sentimento che consente semplicemente
di comprendere e amare un’altra persona a livello umano.Qualsiasi
persona si trovi a sperimentare una perdita sarà capace di
riconoscere, con maggiore profondità, la forza di tutto ciò
che le sta intorno permettendo alla compassione umana di pervaderla.
E’ un modo di creare una risonanza con questa qualità
di energia che è adatta alla vita stessa per continuare a
fluire.
Sono pagine intense, pervase da una
commozione trattenuta,discreta ma viva, presente e autentica perché
propria di chi ha provato fino in fondo lo smacco più beffardo
e innaturale della vita, di chi ha conosciuto il freddo che annichilisce
della paura e ha saputo trasformarlo in amore di chi è giunto
alla certezza che il momento della morte è uguale al primo
momento dell’incarnazione, quando si nasce e, rendendosi conto
di essere vivi, si prende coscienza del fatto di essere destinati
a morire.
Quale antica saggezza! Come non riconoscere
le note suggestive degli stoici e soprattutto di Seneca! Ha ragione
la Voce là dove suggerisce “in realtà cose estremamente
nuove non ce ne sono perché tutto quanto, anche leggendo
i libri sacri, è già stato detto…”
Tanti i sentimenti, le emozioni, le
sfaccettature, gli angoli di visuale che il libro offre attraverso
il dipanarsi di una meravigliosa e imperitura storia d’amore
tra un padre, cittadino ancora dell’al di qua, e una figlia
già tornata a casa, storia che fa da contenitore all’incontro
con le singole voci e di cui la figlia è dolce e solerte
regista, in un gesto di pieno e disinteressato Amore. Ma uno in
particolare campeggia su tutti, quale compendio supremo di antiche
saggezze e di sensibilità sottili:il dolore è costitutivo
della vita, appartiene alla categoria vera dell’esistenza
che è quella del tragico e come tale va accettato, va addomesticato
e trasformato perché, altrimenti, diviene elemento che blocca
il procedere della vita nel suo naturale fluire.
Come sussurra Sibylle è necessario
cercare di riaprire il cuore di coloro che soffrono dando loro una
speranza… è un po’ come mandare un raggio di
luce in una notte buia, alzare la mano verso il cielo dove palpitano
tante facelle e raccoglierne alcune per illuminare, quali scintille
di vita, la notte buia di chi ha ancora tanta paura e tanto dolore.
Ogni lettore, al di là e oltre
il suo credo e le sue aspettative, non potrà non cucirsi
addosso le parole irrinunciabili di Soggetto quale chiusa ideale
del suo viaggio all’interno del libro. Tutti sanno che la
vita è effimera, ma solo quando c’è l’incontro
con la morte questo sapere si traduce in presenza, si scopre il
senso profondo del perdere e scoprire il perdere significa consegnarsi
sempre più indifesi al mistero della vita, al mistero del
Divino, al mistero dell’altro. A quelle piccole esperienze
di incontro con il semplice mistero che nasce e che muore ogni giorno.
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