L’eros di Dante: chi è
Beatrice?
E chi volesse vedere con ancora maggiore penetrazione,
chiamerebbe questa Beatrice Amore, tanto è grande la sua
somiglianza con me.
Beatrice che appare a Dante all’età di nove anni e
che alla sua ultima età terrena lo conduce sulla soglia dell’
Empireo, la donna che ispira il suo primo libro giovanile (La Vita
Nuova) e che egli sceglie a guida nel poema sacro del grande pellegrinaggio
umano, resta indissolubilmente legata al poeta nel cuore di ogni
lettore.
Dante è riuscito, come il suo amore voleva,
a far rifulgere il nome di Beatrice di uno splendore vivo e profondo
come pochi altri nomi umani. Ma la luce che si irradia da lei non
rende facile conoscerla, poiché si chiude in un mistero che
non è agevole penetrare e sfugge di mano come un fantasma
inafferrabile a volerla fermare entro i limiti di un simbolo o la
psicologia di un personaggio storico.
L’uno e l’altro modo non servono con
lei: Beatrice è con Dante in un rapporto molto più
intimo e profondo di tutti gli altri personaggi della Divina Commedia,
più dello stesso Virgilio. E’ una cosa tutta speciale,
è un po’ l’anima stessa di Dante, la luce della
sua anima. Per questo bisogna accostarsi a lei con molta delicatezza:
la sua poesia è una delle più difficili, poiché
si tratta di un tema tutto interiore e della più chiusa stanza
dell’animo di Dante, e per coglierla è necessario seguire
con attento orecchio le indicazioni che il poeta ci dà là
dove la sua parola lascia intravedere la segreta roccaforte.
Non è cogente ai fini di tale disamina stabilire
se Dante, come tutti i poeti stilnovisti, appartenesse o meno alla
setta dei cosiddetti Fedeli d’Amore, certo è che l’amore
umano di Dante per Beatrice è figura di un amore iniziatico,
trascendente e assoluto. Mentre tra Dante e Amore esiste una relazione
da discepolo a maestro, tra Beatrice e Amore si trova la rassomiglianza,
poiché Beatrice è l’involucro corporeo d’Amore
(Novalis).
Per Dante l’eros, l’amore, è
all’origine del mondo e ha infuso in esso, e in particolare
nell’uomo, il desiderio di sé, in un perpetuo anelito
d’amore, di tensione verso l’Uno. E’ in questa
prospettiva che si può inquadrare la figura grandiosa di
Beatrice. Dante, volendo tornare a Dio, non vuole certo perdere
l’amore per la sua donna; accanto ad un amore infinito vuole
conservare anche quello finito, l’uno non deve alienare l’altro
e, nel tentativo di portare l’amore per una donna dentro il
cuore di Dio, Dante scopre il principio dell’analogia: Dio
si fa conoscere attraverso dei segni. Ecco quindi che il poeta ha
l’intuizione audacissima di vedere Beatrice in questa prospettiva:
egli, attraverso di lei, fa esperienza di Cristo e del Divino.
Beatrice, infatti, apre e chiude tutto il cammino
di Dante uomo e poeta, fino ad esserne guida nel regno della beatitudine.
Già nella Vita Nuova, testo-itinerarium in cui Dante descrive
le diverse fasi dell’innamoramento, Beatrice è da subito
la donna amata ed esaltata, perduta e rimpianta ma beata in cielo
con gli angeli e viva in terra con la sua anima. Già in queste
pagine, tutta l’espressività di Beatrice è concentrata
nell’atteggiamento del vultus, nella potenza comunicativa
del suo saluto, soprattutto attraverso gli occhi e lo sguardo luminoso.
Il saluto della donna amata è fonte di salutem,
di beatitudine e di traboccante pienezza interiore, poiché
è strumento sensibile, umano, che contribuisce a riformare
l’uomo interiore. Ecco perché il negarlo getta il poeta
nello sconforto e nell’angoscia; offesa da voci che procurano
a Dante la taccia di vizioso, Beatrice abbassa gli occhi ed elimina
la possibilità di ogni comunicazione, anche silenziosa. Lo
sguardo dell’amata è un ponte verso il cielo, una scala
che solleva, una luce che monda, che redime lo stanco viandante;
è l’arma che Dio ha concesso a Dante, nuovo Perseo,
per decapitare Medusa che annichilisce e fa peccare. E infatti quegli
occhi tanto amati, che passano il cuore e al di fuori dei quali
non c’è paradiso, tornano a salvarlo nel pieno del
suo smarrimento.
Siamo nel vivo della vita del poeta, matura di
esperienza, di errori e di dolore: a lui, sull’orlo della
morte interiore, Beatrice si muove per portare soccorso, per lui
fatto pellegrino, ella è luce e conforto nella via. E quell’antico
amore si trasforma così in un legame vivo e profondo che
torna con la potenza degli anni trascorsi.
Beatrice appare nel II canto dell’Inferno
preannunciandosi già come faro nel lungo cammino attraverso
i due regni successivi. E’ discesa al Limbo per chiamare Virgilio
in aiuto di Dante: “Amor mi mosse che mi fa parlare”
( v.72). Certo, è l’amore inteso in senso assoluto,
ma è anche soprattutto l’amore di lei per il suo fedele
poeta. Il suo discorso è soffuso di particolare liricità,
cosparso di femminile tenerezza e trepidante umanità, ch’ella
esprime soprattutto con quegli occhi lucenti di lacrime.
Beatrice ricompare sulla cima del Purgatorio a
compiere l’opera che renderà Dante puro per la salita
alle stelle. Questo è veramente il momento centrale della
poesia di Beatrice, così come lo è della salvezza
del poeta. Ella scende, qui cinta dell’autorità della
beatitudine in un mirabile trionfo, avvolta in una nuvola fiorita,“sotto
verde manto vestita di color di fiamma viva” (Canto XXX, vv.
32/33).
Dante, ancor prima di vederla, riavverte dopo tanti
anni, l’antico tremito e la commozione di un tempo, come al
momento del loro primo incontro “conosco i segni de l’antica
fiamma” (v: 48) ed è a questo punto che Virgilio scompare,
quasi senza lasciare traccia per lasciare posto a Beatrice come
nuova guida del poeta. E mai come ora Beatrice perde i suoi connotati
divini. E’ come se fosse il nuovo Virgilio, la nuova coscienza
e umanità di Dante. Ma il passaggio dall’una all’altra
vita della sua anima, dall’una all’altra madre, è
profondamente doloroso.
E’ un momento di alta poesia quello in cui
Dante piange l’amato Virgilio, pur avendo finalmente di fronte
la donna tanto attesa. Donna che si fa giudice altero e severo dello
smarrimento del poeta dietro le cose fallaci. E’ il duro momento
in cui si varca veramente il limite. La requisitoria di Beatrice
è inflessibile e spietata; niente è risparmiato all’autore
protagonista, che qui assume su di sé tutto quel carico di
accuse e lacrime e, quando alza il volto per guardare Beatrice e
la intravede, pur velata e lontana, molto più bella di quella
antica che ricordava, avverte in lui la più profonda puntura
del pentimento e perde i sensi.
E’ necessario lo spezzarsi del cuore del
pellegrino per varcare il limite tra i due mondi. Ma ora Dante è
degno di passarlo. Finalmente Beatrice si disvela, così che
Dante possa fruire di quel volto che è, esso stesso, splendore
di viva luce eterna. E, nelle parole con le quali il poeta canta
quella bellezza ritrovata “O isplendor di viva luce eterna”
(Canto XXXI° v.139), vibra già tutta la poesia del Paradiso.
Nella terza cantica Beatrice si trasfigura ancora,
come tutto si trasfigura agli occhi di Dante. Perduta ogni scoria
terrena, ella diventa la sensibile misura dell’immortale splendore
che l’occhio del poeta contempla. Dante ha rotto tutti ponti
con la terra; egli tenta qui di ridire lo stato della beatitudine,
lottando contro i limiti dell’assurda parola e Beatrice si
fa centro vivente di quella stessa beatitudine, ardore e riso degli
stessi cieli.
Nel Paradiso il rapporto tra Dante e Beatrice è
veramente speciale: è un rapporto totalmente intimo, fatto
di gesti, di sguardi, di cenni. Le parole non servono più
“gli occhi di Beatrice, ch’eran fermi sovra me come
pria di caro assenso al mio disio certificato farmi “ (Canto
IX° vv.16/18); “Io mi volsi a Beatrice e quella udìo
pria ch’io parlassi e arrisemi un cenno che fece crescer l’ali
al voler mio” (Canto XV° vv.70/72); “e nulla vidi
e ritorsili avanti dritti nel lume della dolce guida che, sorridendo,
ardea nelli occhi santi “(Canto III° vv.22/24).
Ecco la pienezza della prima rappresentazione paradisiaca,
occhi che ardono d’amore, poiché sono claritas, irraggiamento,
emanazione di ciò che è più profondo e che
sta sotto l’aspetto sensibile delle cose. Gli occhi e il riso
di Beatrice sono veramente il paradiso di Dante, occhi e riso che
aprono al poeta le porte dell’amore universale e nei quali
egli si perde estasiato, rapito in contemplazione.
Particolarmente indicativi a tale proposito sono
i versi 31/36 del Canto XV°: Dante, stupito dalle inattese parole
di uno spirito (quello del trisavolo Cacciaguida), guarda prima
attentamente la luce da cui è partita la voce, poi, con movimento
naturalissimo, si volge a Beatrice per chiederle spiegazione. Ma
è preso da nuovo stupore nel vedere gli occhi della sua donna
così luminosi e ridenti che gli sembra di raggiungere il
grado più alto della sua beatitudine.
Lo sguardo beatificante di Beatrice è dovuto
non solo al fatto che ella è salita ad un più alto
cielo, ma anche alla gioia suscitata in lei dalle parole di Cacciaguida,
parole in cui vede il trionfo dell’amato poeta e il coronamento
dell’opera propria. I versi rivelano nel loro ritmo tutta
l’ebbrezza ed il rapimento con cui il poeta si perde negli
occhi divini e comunicano vibrazioni di gioia che si dilatano gradualmente
verso purità celestiali.
Dante è talmente sedotto dallo splendore
di quegli occhi e dalla luminosità di quel sorriso che continuamente
è tentato di fermarsi lì, alla bellezza della sua
donna. Ma Beatrice ogni volta lo scuote, rimproverandolo amorevolmente,
e lo riporta a prospettive più ampie: “Vincendo me
col lume d’un sorriso, ella mi disse: ’Volgiti e ascolta;
chè non pur ne’ miei occhi è paradiso’”(Canto
XVIII° vv.19/21); “perché la faccia mia si t’innamora,
che tu non ti rivolgi al bel giardino che sotto i raggi di Cristo
s’infiora?” (Canto XXIII vv.70/72).
Quando il pellegrino raggiunge l’Empireo,
all’inizio del XXX° canto del Paradiso, che è tra
le cose più grandi che il poeta ci ha lasciato, è
giunto il momento di rinunciare al tema più caro della sua
poesia: lasciare di cantare Beatrice. Al momento dell’incontro
finale con Dio, Dante perde la sua guida fedele: “anche il
più alto e puro degli amori umani non può fare da
intermediario tra il pellegrino ed il suo Dio, ogni legame con la
terra è infranto”.
Tutta la sua vita di poeta e di uomo gli è
davanti, ora, ed egli ripercorrendola con il pensiero la vede sempre
illuminata da un'unica immagine, la riconosce assiduo tentativo
di immortalare quello che di più bello ha visto sulla terra.
E scaturiscono così le sublimi parole: “Dal primo giorno
ch’io vidi il suo viso, in questa vita, infino a questa vista,
non m’è il seguire al mio cantar preciso; ma or convien
che mio seguir desista, più dietro a sua bellezza, poetando,
come a l’ultimo suo ciascuno artista” (Canto XXX°
vv.28/33).
Giunti finalmente all’Empireo, Beatrice compiuta
la sua missione affida il suo poeta a San Bernardo. Dante si volge
credendo di trovare la sua donna, e invece si vede al fianco un
vecchio venerando. E’ questo un momento difficile da commentare
e dispiegare; c’è rinserrato in esso tutta la lunga
vicenda di poeta e di uomo. Nell’attimo in cui può
finalmente godere della visione tanto disiata, quella della Candida
Rosa, il pellegrino, nella pienezza della sua storia intrisa di
dolore e di speranza, perde la sua luce, il suo conforto, l’unica
presenza corporea che lo ha sostenuto e che aveva ritrovato sulla
cima dell’Eden.
Il cerchio si chiude, il viaggio volge al compimento.
Ma Dante non ferma la sua attenzione sul nuovo venuto, domanda invece
con trepida ansia dove si trovi la sua dolce guida. E poiché
il cuore è pieno di lei, non ne pronuncia neppure il nome,
come se fosse impossibile supporre che egli intendesse domandare
di un’altra donna: “E ‘ov’è ella’,
subito diss’io” e, volgendo gli occhi in alto, vede
la sua donna che come uno specchio riflette da sé i raggi
divini in forma d’aureola.
Mai Beatrice è apparsa così fulgida
come in queste semplici parole “e vidi che si facea corona
reflettendo da sé li etterni rai”, parole in cui la
sovraumana potenza della sua virtù è presentata senza
il minimo commento. E’ l’ultima immagine che il poeta
ha voluto lasciarci della donna che ha illuminato la sua vita fin
dalla fanciullezza e della quale, al suo primo apparire, i suoi
sensi avevano detto: “Ecco che è apparsa la vostra
beatitudine”.
Dante allora, nonostante l’immensa distanza,
si tende tutto verso di lei e dal profondo del cuore le rivolge
una commossa e appassionata preghiera, in cui palpitano tutta la
riconoscenza per il bene ricevuto e lo strazio per il necessario
congedo. E’ musica che da sempre incanta e commuove il cuore
dei lettori, poesia pura che si stempera in immagini di inusitata
bellezza spirituale, dove trepida il ritmo segreto e profondo di
un’anima innamorata che canta:
“O donna in cui la mia speranza vige, e che
soffristi per la mia salute in inferno lasciar le tue vestige, di
tante cose quant’i’ho vedute, dal tuo podere e da la
tua bontade riconosco la grazia e la virtute. Tu m’hai di
servo tratto a libertate per tutte quelle vie, per tutt’i
modi che di ciò fare avei la podestate. La tua magnificenza
in me custodi sì che l’anima mia, che fatt’hai
sana, piacente a te dal corpo si disnodi” (Canto XXXI, vv.79/90).
Versi sublimi che, sebbene si riferiscano alla
Beatrice trascendente, tradiscono ancora l’impeto passionale
dell’amante e riconducono il pensiero ai cari e lontani giorni
dell’amore giovanile. Beatrice, sebbene tanto lontana, gli
invia un ultimo sorriso e un ultimo sguardo come a dimostrar, ancora
una volta, l’amore che gli porta; poi, anima beata, torna
a contemplare la Fonte eterna: “e quella, sì lontana
come parea, sorrise e riguardommi; poi si tornò all’etterna
fontana”(Canto XXXI , vv.91/93).
Mai sorriso e sguardo di creatura hanno avuto tanta
eloquenza d’amore tutto dicendo senza nulla dire; mai nella
stessa Beatrice l’umano si è fuso con il Divino con
tale delicatezza e profondità come in questo commiato finale.
Veramente ora il poeta, sciogliendo la sua promessa, ha detto “di
lei quello che mai non fue detto d’alcuna” .
torna
all'inizio
|
|