Dante vicino
Che cos’è la Divina Commedia?
Non è una summa, è un numero primo indivisibile ed
è questo inesplicabile segreto che le conferisce quella forza
che si rinnova attraverso la storia.
Perché Dante? Perché oggi più che mai l’incontro
con il ghibellin fuggiasco ha il sapore dell’irrinunciabilità?
Poeta concentrico, Dante sembrerebbe non poter fornire modelli a
un mondo come il nostro che sta perdendo se stesso, che si allontana
progressivamente dal centro e si dichiara in perenne espansione.
E proprio per questo, sembrerebbe inspiegabile
alla nostra moderna cecità che quanto più il suo mondo
si allontana da noi, tanto più cresce la nostra volontà
di conoscerlo e di farlo conoscere a chi è più cieco
di noi. Così già scriveva Montale, cogliendo l’inesplicabile
segreto e cioè che Dante rappresenta una meta cui tendere
per mettersi in salvo. La sua parola ha una dimensione e una pregnanza
tali che la fanno attuale sempre, soprattutto quando l’uomo
smarrisce se stesso e il sentimento del proprio destino. Ma donde
tale forza che vince le fredde ali del tempo preservando la Divina
Commedia dalla notte dell’oblio?
In primis Dante è un classico,
anzi il classico per eccellenza, in quanto dominato da una particolare
irrequietezza che fa sì che non si lasci facilmente collocare.
Un classico non sta mai là dove lo metti e non finisce quando
lo si chiude ma ti accompagna nel tempo e attraverso il tempo, attraverso
le stagioni della vita. Un classico è colui che ha già
occupato i primi posti a teatro, diceva Calvino, poiché lascia
un margine illimitato alla cultura a venire, è potente sintesi
del passato e suggestivo presentimento e vestibolo del futuro. Per
cui -scrive G. Contini- l’impressione genuina del postero,
incontrandosi con Dante, non è d’imbattersi in un tenace
e ben conservato sopravvissuto, ma di raggiungere qualcuno arrivato
prima di lui.
Oggi più che mai è necessario
credere nella biblioterapia, nel fatto cioè che i grandi
libri ci svegliano, ci scuotono e ci curano, poiché hanno
una grande risonanza interiore e un’attualità esistenziale:
in quest’ottica la Divina Commedia risulta attualissima, in
quanto Dante esprime tutte le dimensioni della realtà, iniziando
se stesso e noi alla scoperta che l’aldilà non è
un luogo remoto dopo la vita, ma è l’altra faccia della
realtà, diversa ma non distinta. Per questo la Divina Commedia
parla di noi, dei nostri inferni e purgatori e paradisi, delle nostre
cadute e delle nostre risalite e ci invita a elevarci, a crescere,
ad espanderci per conoscerci.
Essa va letta con grande energia creativa
per cogliere il nesso tra amore e conoscenza -le nozze sacre-, nella
certezza dantesca che l’uomo è un perfetto microcosmo
in grado di far risplendere il mistero trinitario di Dio, l’uomo
e il cosmo. Già l’analisi lucida di Auerbach ha da
tempo messo in evidenza la pregnanza umana della Divina Commedia
vista come teatro delle passioni, in quanto Dante ha sollevato l’uomo
dalla sua indeterminatezza e lo ha posto nello spazio storico, che
è la sua reale dimora: Dante per primo ha forgiato quella
figura dell’uomo che la coscienza europea ancora non possedeva,
l’uomo, quello vivo, determinato, legato alla storia, l’individuo
nella sua unità e completezza, la persona nel suo valore
primario e intangibile, in breve nella sua natura storica e in questo
lo seguiranno tutti quelli che daranno figura all’uomo.
Critici e dantisti eminenti hanno già
colto la posizione avanzata e di scoperta di un Dante rispetto ad
una sensibilità umanistica: che si tratti della sete umana
di felicità che permea di sé tutto il viaggio di Dante
e che induce a parlare di vero umanesimo entro le cui coordinate
la vita umana, la dimensione terrena si caricano di una dignità
sconcertante; o della confessione umanistica che Dante fa quando
proclama sue guide Boezio e Cicerone nello studio di Madonna Filosofia;
che sia il suo individuare come forze motrici della storia la virtù
umana e la brama del sapere rette da pilastri dell’etica umanistica
come la giustizia e la pietà intesa come profonda simpatia
tra gli esseri umani, solidarietà dell’umano consorzio
civile; o che si tratti di quel suo potente sincretismo, di quel
suo ricreare rispetto al modello in un’intima fusione di classicità
e Medioevo, di quel suo leggere i testi antichi con occhi nuovi,
gli occhi di un poeta innamorato della bellezza antica, per cui
la classicità pare acquisire una suggestione più forte,
che presuppone costante amore e lungo studio (non si può
qui non ricordare la potente creazione, all’interno del Limbo,
del Nobile Castello che esprime la ripugnanza del poeta ad assegnare
uno stato di eterna pena, sia pure soltanto spirituale, ad anime
attive, eroiche, ad intellettuali superiori solo perché non
ebbero la vera fede), che si tratti di tutto questo insomma, tutto
concorre a collocare Dante in una posizione singolarissima e profondamente
personale, in una posizione nuova e consapevolmente nuova.
Ma l’elemento più significativo
che determina il fascino di Dante e fa la giovinezza e l’attualità
della sua poesia sta nella sua indomabile volontà di vivere
da uomo, di agire da uomo, di parlare da uomo nella sua inesauribile
tensione a mettere a confronto tutto della sua vita con il Destino.
I fatti salienti della sua esistenza, la sua stessa vita interiore,
il suo pensiero vivono nell’oltretomba. La Divina Commedia
è un fatto personale dall’inizio alla fine.
L’autore di questo viaggio straordinario
non è un eroe leggendario, un santo o un profeta, ma un uomo
immerso nei suoi dolori e smarrimenti, calato appieno nella storia
a lui coeva, una storia di cui conosce le pieghe più riposte,
le forti contraddizioni, il peso e la depravazione poiché
attore ne è l’uomo, l’uomo di sempre di cui il
poeta conosce ogni pascaliana miseria e grandezza per cui, paradossalmente,
è proprio la forte connotazione storica, la presenza costante
del contingente a rendere vivo e contemporaneo il racconto dell’aldilà.
Così il lettore non tratterrà
tanto Didone nel suo cuore quanto Francesca, non Costanza d’Altavilla
quanto Piccarda. Scendendo di girone in girone, attraverso gli incontri
con le anime perse, è come se Dante scendesse dentro se stesso,
incontrando una parte di sé, una parte che il poeta-pellegrino
deve superare, oltrepassare, staccandola da sé e giudicandola.
In ogni incontro, soprattutto in quelli
più alti e drammatici, Dante lascia una parte della sua vita,
una forte passione che lo ha accompagnato e attraversato -l’amore
passionale, la fierezza politica, la bramosia della conoscenza-
ma che ora deve allontanare e sublimare per ritrovare se stesso
e risalire. Così in questa sua abissale discesa Dante conduce
con sé ogni uomo, da sempre.
Suggeriamo la lettura suggestiva ed
irrinunciabile del commento alla Divina Commedia di Anna Maria Chiavacci
che con passione e pathos narrativo conduce il lettore all’interno
di un itinerario di recupero della dimensione umana e storica del
poema. La Divina Commedia non è un poema sacro, non è
un trattato di teologia, ma un grande testo poetico; Dante non è
un teologo, un politico, un uomo di chiesa ma è un uomo in
cammino, e ogni gesto dell’uomo è prezioso, ogni sua
parola è contata, tutta la realtà è guardata
da Dante con appassionata cura e amore in ogni sua sfumatura.
Ogni moto del cuore umano sembra appartenere
a Dante, nulla gli è estraneo poiché tutto ciò
che riguarda l’uomo lo attraversa ed è da lui guardato
con somma pietà. E’questo suo immedesimarsi nell’umano
che conferisce al suo poema un amore e un’universalità
che durano da sempre. La straordinaria novità della regia
dantesca nasce dall’irruzione della storia, dall’appassionata
ansia del presente, dalla forza di un destino che trasfonde un significato
personale alle figure e agli eventi.
La storicità connota dunque ogni
tratto del sommo poema, e a ciò è strettamente coerente
anche la sorprendente qualità della scelta delle guide del
poeta nel suo viaggio: Virgilio, Beatrice, San Bernardo. E se la
terza guida rappresenta una scelta normale, in quanto chi meglio
di un grande mistico può condurre Dante alla visione finale
di Dio, le altre due sono determinanti nella vicenda personale narrata:
coloro che lo salvano sono infatti quelli che più ha amato,
il poeta pagano da lui venerato e la fanciulla fiorentina tanto
amata fin dalla tenera giovinezza.
Beatrice, un nome che è diventato
un guadagno per il sempre, un nome che risveglia visioni iperuraniche,
che mette le ali e rilancia la propria vita verso il senso dell’ulteriorità,
perché Beatrice è e resterà sempre la donna
tenacemente amata dal poeta. Il Paradiso di Dante sono gli occhi
di Beatrice, il suo sorriso e il suo beato riso. Fino all’ultimo
essa non cesserà mai d’essere ciò che era al
principio, cioè una creatura particolare, un’esperienza
contingente e personalissima, la forza dell’incanto dei sensi
che vengono messi al servizio della Redenzione del poeta.
Beatrice è l’incontro determinante,
è figura dell’aldilà personale di Dante: colpito
in tenera età dalla sua grazia, si accese in lui quella fiamma
d’amore che più non si spense. Ben presto il poeta
dovette riconoscere che tale legame, per la sua misteriosa forza,
era il fatto più importante della sua esistenza. Fu allora
che si impose a lui una scelta: o fare di questo amore la sua dannazione,
un ricordo struggente, un possesso egoistico che lo separava dal
mondo, o obbedire alla sua natura totalmente gratuita, riconoscendo
in esso i segni dell’aiuto di Dio per tornare a camminare
verso di Lui.
“Amor mi mosse che mi fa parlare”,
così Beatrice dice a Virgilio (Inf. canto II, v. 72), esprimendo
tutto l’amore suo, personale, che ormai fa parte dell’Amore
divino: in nome di quell’amore lei si è mossa e si
muoverà fino al Paradiso; il gesto umano, terreno coincide
con il destino ultimo, lo storico con l’eterno. Beatrice,
dunque, è lo strumento d’amore che Dio ha predisposto
per trarre a sé Dante: egli vede lo splendore di Dio riflesso
negli occhi belli della sua donna (onde a pigliarmi fece amor la
corda), veicolo di grazia, nel senso che ha un ruolo salvifico.
Essa è espressione della magnificenza,
della meraviglia di Dio, è la Forma visibile della Bellezza
Assoluta. Sedotto da tale bellezza, Dante compie la sua evoluzione
spirituale e intellettuale, simile a una vera e propria conversione.
Ecco il miracolo operato da Beatrice, creatura platonicamente demonica
al modo di Eros perché conduce Dante dall’esistenza
terrena alle realtà celesti, una scala verso il cielo, un
ponte verso il soprasensibile, senza però smaterializzarsi
mai; essa resta centrale, anche nell’incontro finale, non
viene mai negata, mai inghiottita dall’amore dovuto a Dio,
né annientata in altro.
Il sentimento che Dante prova
per l’amata e che gli è entrato dentro proprio attraverso
le porte degli occhi accendendo un fuoco eterno, è qualcosa
di incancellabile e non riassorbito mai nell’adorazione di
Dio, anche se Dante ora sa che Dio è alfa e omega di ogni
atto d’amore. La compresenza di questi due sentimenti che
non si negano mai, ma coesistono in armonia, costituisce un valido
criterio per parlare della Divina Commedia come il più grande
romanzo d’amore di tutti i tempi, la più grande esaltazione
della bellezza di una donna, di una bellezza che è simulacrum
della Bellezza divina e forza motrice di un viaggio straordinario,
di una bellezza che salva, che libera, che introduce alla totalità
riconducendo a Casa il viandante stanco e smarrito.
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