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Bullismo. Educare significa amare e testimoniare
Sono disorientata, come madre e come insegnante. Apro giornali,
riviste, accendo la televisione o navigo in internet, qualunque
sia lo strumento attivato la risposta è univoca: un fiume
di letteratura, articoli, interventi e trasmissioni televisive sul
fenomeno sociale del bullismo mi investe con dati allarmanti e inquietanti.
Una vera sconfitta per la famiglia e per la scuola, luoghi principi
da sempre deputati al ruolo fondamentale dell’educazione.
Il libro autobiografico di Marco Cappelletti,
giovane membro della Commissione ministeriale contro il bullismo,"Volevano
uccidere la mia anima", provoca un profondo malessere e disagio
interiore.:il bullismo è un danno all’esistenza! Si
tocca con mano dolente la dimensione del bullo che vive l’altro
come oggetto da distruggere e soprattutto il dolore della vittima
umiliata e lasciata sola. Così come destabilizza, con la
forza e la violenza di un pugno allo stomaco, la lettura del libro
shock di Marida Lombardo Pijola, una giornalista del Messaggero,
dal titolo “Ho dodici anni, faccio la cubista, mi chiamano
principessa”; un documento crudo di un mondo sommerso e sconvolgente
di lolite e bulli, dagli undici ai quattordici anni, il cui regno
sono le discoteche pomeridiane.
Chi come me riveste il ruolo così
delicato e fondamentale di educatore, non solo come madre ma anche
come insegnante, prova davvero un senso di smarrimento e di insidiosa
paura: comincia a sentire il vento freddo della resa, della capitolazione,
della rinuncia al proprio ruolo. Docenti frustrati, demotivati,
lasciati soli da una scuola che sembra rispondere solo alla funzione
di babysitteraggio sociale; insegnanti sottopagati, dequalificati,
privati della loro dignità dalle stesse famiglie dei loro
alunni.
Leggo, tra il tanto materiale scaricato,
che uno studente per provocare un professore chiede: “Scusi,
ma nell’epoca di internet lei che cosa ci sta a fare?”.
A cosa serve il professore? E’ inevitabile che lo sconforto
ti assalga, che la voglia di fare altro ti porti ad accarezzare
l’idea di fuggire da una sorta di Caporetto scolastica. Eppure
non mi sento una prof in trincea, mai sentita! Da qualche parte
bisogna cominciare, contro la rischiosa la tentazione di scivolare
nella più vieta retorica, nella pura demagogia, scolpendo
la propria bocca sull’ore rotundo.
Tanti parlano, propongono soluzioni,
ma mi sembra si proceda per scorciatoie e non in prospettiva. Al
centro di tutto c’è una sola parola della cui pregnanza
è necessario riappropriarsi: EDUCARE, nella ferma consapevolezza
che insegnare è una professione difficilissima, una sorta
di missione e come tale deve avere la sua molla propulsiva in un’irrinunciabile
spinta interiore, in un bisogno esigenziale, in una passione totalizzante.
Spesso invece si sceglie l’insegnamento secondo una filosofia
di vita alla Don Abbondio!
Tante sono le sfumature, le competenze,
le sensibilità che un docente deve possedere; prima di tutto
l’equilibrio, la serenità, la capacità di entrare
in classe e lasciare tutta la turba di pensieri e preoccupazioni
fuori della porta, concentrando la propria energia sugli alunni.
E invece nelle scuole insegnano tanti docenti depressi, frustrati,
poco preparati ad affrontare il proprio e l’altrui disagio.
Sul web proliferano i blog dove si va
a scaricare la disillusione, dove si raccontano giornate vuote,
inutili, mattine trascorse a combattere contro ragazzi indisciplinati,
maleducati, pomeriggi trascorsi a discutere con genitori e con colleghi
in allucinanti collegi docenti senza alcun risultato. La scuola,
così, diventa un nuovo Deserto dei Tartari, troppo difficile
da attraversare se non si è sufficientemente sereni ed equilibrati.
“L’insegnamento logora”, è stato detto.
Un libro, dato alle stampe l’anno
scorso, recita un titolo illuminante “Scuola di follia”,
all’interno storie di professori, studenti, genitori e dirigenti
scolastici alle prese con problemi psichici: su 3.447 dipendenti
pubblici, gli insegnanti risultano i più “scoppiati”.
La situazione è davvero di emergenza. Ma, come dicevo, da
qualche parte si deve cominciare! Ergo, comincio da me, dal mio
mondo, dal mio lavoro e sottolineo con forza la necessità,
come conditio sine qua non della professione docente, di un minimo
di equilibrio, di un margine dignitoso di serenità tale da
proporsi come modello credibile.
La necessità quindi di un test
psicologico cui ogni docente dovrebbe essere sottoposto, oltre all’acquisizione
di conoscenze e competenze psicologiche, nella consapevolezza inoppugnabile
che chi insegna lavora quotidianamente con un delicato, preziosissimo
materiale umano. Formandolo e forgiandolo si determinano benefici,
ma anche irreversibili danni. Ad un test proposto nelle scuole in
cui si chiedeva “A chi faresti riferimento se avessi dei problemi?”,
molti hanno risposto “il gruppo”. Ma siamo noi adulti
che dobbiamo ascoltare i ragazzi: l’educazione è una
continua interiorizzazione di esempi, non possiamo parlare in un
modo e comportarci in un altro!
L’aveva detto anche Socrate che
il vero maestro è colui che testimonia con la vita le proprie
idee. I giovani hanno bisogno di coerenza e testimonianza. Vanno
ascoltati con il cuore e amati comunque. I ragazzi che noi insegnanti
incontriamo ogni giorno in classe ci fanno da specchio e riflettono
un mondo adulto allo sbaraglio, una società violenta dove
si fa a botte per un parcheggio, dove gli stessi adulti non hanno
più regole e non sanno esercitare l’impegno del “NO”
per nascondere il proprio naufragio come educatori… mentre
i ragazzi vogliono regole, ce le chiedono, ci chiedono aiuto!
Amarli e mostrare loro di farlo, così
scriveva don Bosco, è la sintesi meravigliosa dell’educare!
Può sembrare patetico parlare di educazione e insegnamento
in questi termini di fronte a questa società ma, alla luce
della mia esperienza e del mio sentire, sono fermamente convinta
della necessità di recuperare all’interno dalla scuola
il valore e il senso dell’amore inteso come esserci, come
servizio per la promozione umana, oggi più che mai di fronte
a queste ultime generazioni così aliene, inquieti Peter Pan
al rovescio, disincantati, provocatori e aggressivi.
Se comprendono che l’insegnante
è lì in mezzo a loro perché crede in quello
che dice, perché tutto ciò che racconta passa in prima
istanza attraverso di lui, perché è animato da passione
vera e che il suo scopo è quello di arrivare a ormeggiare
il loro cuore, ad aprire la loro anima verso il flusso della vita,
accendendo in loro la passione, contagiandoli di un virus sublime
che è quello della curiositas, allora gli alunni si mettono
in ascolto e ti regalano il loro rispetto.
Il rispetto non va preteso a priori…
è una quotidiana conquista, poiché ciò che
essi chiedono non è autoritarismo, coercizione, punizione,
ma autorevolezza, dolce fermezza e presenza! È necessario
allora creare situazioni di dialogo, di confronto dentro la classe,
creare una comunità educante per la quale l’autorità
è un valore che trova giustificazione nel suo porsi come
servizio. Credo che non si possa educare alla responsabilità
personale attraverso l’indiscussa esecuzione degli ordini
e la repressione dell’errore.
L’autorità non può
costringere a non sbagliare (si ottiene l’effetto contrario).
Autorità non è imposizione, ma competenza e responsabilità.
E’ un atteggiamento che si costruisce giorno per giorno. Questo
dovrebbe cominciare a fare la scuola: costruire l’autorità
come un valore condiviso e non come un potere da temere. Certo,
non è facile. Educare oggi è l’impresa più
ardua e faticosa; richiede equilibrio, infinita pazienza, preparazione
psicologica, motivazione vera, disponibilità a mettersi in
gioco ma, soprattutto, capacità di ascolto, di sentire il
cuore dei propri ragazzi oltre e al di là dei loro atteggiamenti.
In una parola ci vuole amore.
Bisognerebbe improvvisarsi ogni tanto
professor John Keating della situazione- l’intenso, rivoluzionario
e avvincente professore di Lettere protagonista del film L’attimo
fuggente- e travolgere gli alunni con la propria energia e creatività.
Così mi scrivono or ora due alunne via sms: “Grazie
prof, lei è il nostro punto di riferimento, il nostro modello…
ci piacerebbe un giorno poter insegnare e trasmettere lo stesso
amore che trasmette lei… grazie per tutto quello che ci insegna…”.
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